“Adolescence”, la serie più vista su Netflix nel 2025, ha già superato i cento milioni di spettatori, conquistando il pubblico con la sua storia cruda e toccante ambientata in una tranquilla cittadina inglese.
C’è chi la definisce un pugno nello stomaco, chi un necessario risveglio collettivo. “Adolescence” non lascia indifferenti. In soli quattro episodi riesce a raccontare molto più di un semplice fatto di cronaca: scava nella fragilità di un’intera comunità, nel silenzio degli adulti e nelle ombre digitali in cui si muovono gli adolescenti di oggi.
Più che una serie, sembra un’indagine emotiva. Una di quelle visioni che spingono a fermarsi, a riconsiderare il rapporto con i figli, con la scuola, con la società. Forse proprio per questo il governo britannico ne ha promosso la proiezione nelle scuole: perché non si tratta solo di fiction, ma di uno specchio piuttosto fedele della realtà contemporanea.
Un successo globale inaspettato per Adolescence
Quando è arrivata su Netflix, “Adolescence” non aveva grandi campagne pubblicitarie alle spalle. Eppure, in pochi giorni, ha scalato ogni classifica. Secondo il report ufficiale di Netflix, è stata la serie più vista nei primi sei mesi del 2025, superando persino colossi come “Squid Game”.
Il motivo? Colpisce per la sua capacità di toccare corde profonde, raccontando una vicenda che, sebbene sembri distante, potrebbe verificarsi ovunque. Jamie ha appena tredici anni quando viene accusato dell’omicidio di una coetanea: un evento drammatico che non sconvolge solo lui, ma anche la famiglia, gli amici, gli insegnanti e l’intera comunità intorno.
La forza della serie sta tutta nella sua narrazione: ogni episodio cambia prospettiva, offrendo uno sguardo nuovo sulla stessa realtà. Non ci sono risposte facili, né un solo colpevole. Ci sono piuttosto silenzi, errori, cecità collettive. Quelle dinamiche sottili che, messe insieme, costruiscono un contesto complesso e disarmante. E lo spettatore si ritrova coinvolto, quasi costretto a farsi domande scomode.
Adolescenza fragile e invisibile: cosa racconta davvero la serie
“Adolescence” non racconta solo un crimine. Racconta un’età complicata, un periodo della vita in cui tutto può cambiare velocemente. Jamie non è un mostro. È un ragazzo spaesato, che si muove in un mondo digitale aggressivo e spesso invisibile agli adulti. Un mondo fatto di messaggi, gruppi privati, pressioni sociali che sfuggono a chi guarda solo in superficie.
Si crede, spesso, che l’adolescenza sia solo una fase di passaggio. Ma cosa accade quando in quella fase esplodono insicurezze, traumi, e soprattutto mancanza di ascolto? Il padre di Jamie, per esempio, scopre solo dopo quanto poco conoscesse davvero suo figlio. Gli insegnanti faticano a comprendere, la polizia stessa oscilla tra il ruolo di autorità e quello di genitore.
Tutto questo emerge senza retorica. Non ci sono eroi, né assoluzioni facili. Solo tante domande. E ogni episodio lascia un retrogusto amaro, ma anche una voglia sincera di capire di più.
Il successo agli Emmy e un protagonista da record
Anche la critica ha premiato la serie. “Adolescence” ha ricevuto 13 nomination agli Emmy, compresa quella per miglior attore a Owen Cooper, appena quindicenne. La sua interpretazione di Jamie ha colpito tutti: intensa, sofferta, mai sopra le righe.
Non si tratta solo di talento. Ma di uno script che ha dato spazio alla verità, senza schemi rigidi o costruzioni finte. Owen, con i suoi silenzi e i suoi sguardi, ha raccontato molto più di mille battute. Ha incarnato quella fragilità che spesso si sottovaluta nei ragazzi, e che può diventare devastante se ignorata.
Il regista, con una mano delicata ma precisa, ha evitato ogni forma di sensazionalismo. Ha mostrato, non giudicato. Ha lasciato che fosse lo spettatore a costruirsi un’opinione, senza indirizzarlo.
Una serie che parla a tutti, anche dopo i titoli di coda
C’è qualcosa in “Adolescence” che continua a lavorare anche dopo la visione. Forse perché tocca un nervo scoperto. Si crede che basti una regola, un limite, per proteggere i più giovani. Ma il mondo di oggi richiede molto di più: richiede ascolto, presenza, dialogo.
E poi c’è la questione del digitale. I social, i messaggi nascosti, le dinamiche di potere che si creano tra adolescenti. Tutto ciò che un adulto spesso ignora, ma che può determinare la vita (e la morte) di un ragazzino. La serie, senza mai risultare didascalica, porta in superficie questa verità scomoda. E invita, in modo implicito, a guardare meglio ciò che accade nella quotidianità.
Forse è per questo che “Adolescence” è stata proiettata anche nelle scuole. Non solo per sensibilizzare, ma per creare un linguaggio comune, uno spazio in cui parlare di ciò che di solito resta nascosto.
Più che una serie, uno specchio
In un periodo in cui molte produzioni inseguono l’effetto shock, “Adolescence” sceglie la via della sincerità. Racconta, senza effetti speciali, una storia che potrebbe accadere ovunque. E forse proprio per questo fa così male.
Perché parla di solitudini. Di cose non dette. Di adulti che non vedono, e ragazzi che non sanno chiedere aiuto. Eppure, nella sua durezza, apre uno spiraglio. Mostra che è possibile fare qualcosa, che il cambiamento comincia da uno sguardo più attento, da un ascolto più presente.
E anche se resta addosso un senso di inquietudine, è un’inquietudine che muove. Che fa riflettere. Che invita, in fondo, a non dimenticare quanto sia fragile, e preziosa, l’adolescenza.
Foto © Netflix